Who owns our knowledge?

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La domanda che è anche il tema della OA week 2025 è interessante.

Gli organizzatori non hanno infatti chiesto a chi appartiene la conoscenza, ma hanno inserito quell’aggettivo possessivo che cambia totalmente la prospettiva e trasforma la domanda in una provocazione.

Posta in questo modo la domanda sembrerebbe sottintendere infatti che ci possa essere qualche dubbio sul fatto che la nostra conoscenza sia nostra. E in effetti se i fondi pubblici la finanziano, sotto forma di grant, se i ricercatori che operano in istituzioni pubbliche la producono sotto forma di ricerca e delle sue applicazioni che senso ha la domanda posta in questo modo?

E invece un senso ce l’ha, perché a quanto pare la nostra conoscenza (o per  lo meno gran parte di essa) è stata da tempo appaltata, con il consenso di istituzioni e autori, a soggetti che certamente hanno come obiettivo primario il profitto e forse (ma non ne abbiamo alcuna certezza né evidenza) come obiettivo secondario il benessere della società e il progresso della conoscenza stessa. Cose ne hanno ricavato in cambio autori e istituzioni? Qualcosa che viene definito “prestigio” e che a mano a mano che il tempo passa diventa un concetto sempre più confuso, polverizzato, sempre meno facile da definire.

Sulle finalità della produzione di conoscenza almeno per quanto riguarda la ricerca scientifica gli interessi di soggetti privati e pubblici divergono (o almeno dovrebbero divergere). La conoscenza è infatti un bene comune (commons), non escludibile e non rivale.

E’ di qualche anno fa un bellissimo discorso di Karen Maex (Protect independent and public knowedge) allora Rettrice dell’Università di Amsterdam che è un appello ad istituzioni e università affinché la conoscenza scientifica venga riportata all’interno del contesto che la produce: nelle università, nei centri di ricerca e nei loro laboratori.

Dopo quel discorso, purtroppo inascoltato, sempre in nome di quel famoso “prestigio” di difficile definizione e di una idea distorta di qualità che sembra risiedere solo in certe sedi editoriali e solo in certi loghi, ci sono stati alcuni sviluppi nel sistema dell’editoria scientifica (contratti trasformativi, open access gold ad APC altissime) che hanno notevolmente incrementato i guadagni degli oligopoli della scienza e notevolmente aumentato il divario fra paesi ricchi e paesi poveri, fra paesi anglofoni e paesi non anglofoni, fra paesi che possono accedere in lettura e scrittura alla conoscenza e paesi ai quali ciò è precluso.

Così, se si volesse provare a rispondere alla domanda A chi appartiene la conoscenza (scientifica)?, la risposta ovvia sarebbe a pochi soggetti privati che la hanno chiusa promettendo in cambio una qualità che non trova riscontro nelle evidenze (oltre 10mila retractions nel 2023, le dimissioni di interi editorial board non disposti ad accettare le condizioni poste dal publisher, lo sviluppo di iniziative come paper e review mills, la nascita di una nuova figura di ricercatore: l’investigatore della scienza).

Anche il Consiglio d’Europa nel 2023 ha definito la situazione dei costi per la conoscenza scientifica  insostenibile e raccomandato ai Paesi membri di sviluppare “not for profit open access multi format scholary publishing models”.

L’Università di Milano da parecchi anni e ben prima del discorso di Karen Maex del 2021 ha implementato una piattaforma di riviste diamond open access. Si è fatta carico della infrastruttura basata su software open source, di un supporto tecnico specialistico alle redazioni che potesse offrire loro formazione e informazione allineate alle migliori pratiche internazionali. Il confronto con le realtà simili di altri Paesi è costante, così come il lavoro nelle reti come la Barcelona declaration. La nostra esperienza viene periodicamente presentata in convegni in Italia e all’estero, ricavando sempre apprezzamento ma anche nuovi impulsi e idee.

Alla piattaforma hanno aderito riviste che nascono da zero, ma vi sono anche passate altre riviste: riviste di società scientifiche, riviste prima proprietarie e cartacee, riviste precedentemente pubblicate online ma in maniera meno strutturata.

Nel corso degli anni le proposte di acquisto da parte di editori commerciali sono state molte, ma le riviste hanno fermamente mantenuto la scelta di tenere la conoscenza scientifica all’interno della comunità scientifica stessa e di una infrastruttura pubblica.

Dal 2020 alle riviste si sono aggiunti i volumi, ampliando l’offerta di pubblicazioni scientifiche che ciascuno può scaricare liberamente dal sito e che rappresentano una documentazione accurata della ricerca che l’università di Milano svolge, una ricerca che è multidisciplinare e multilingue.

Caratteristica di tutte le pubblicazioni sia seriali che monografiche è che gli autori mantengono il diritto sulle proprie pubblicazioni, mentre alla casa editrice è attribuito il diritto non esclusivo di prima pubblicazione online.

Ovviamente questa rappresenta una piccola parte della ricerca prodotta dall’università di Milano, ma per questa parte possiamo certamente rispondere alla domanda della open access week con la frase di Samuel Moore, autore di un bel libro sullo stato dell’editoria scientifica: Publishing beyond the market: open access care and the commons

Publishing cannot stand outside the communities that produce research: it’s part of research

Nel caso della Casa editrice dell’Università di Milano la nostra conoscenza appartiene dunque ai ricercatori che la producono e la validano, all’università che la cura e la dissemina,  a tutti.

Buona open access week!