Un recente articolo apparso su The Journal of academic librarianship analizza il tema dei contratti trasformativi dal punto di vista degli editori, prendendo come caso di studio l’editore Wiley.
Sappiamo che i contratti trasformativi sono accordi di solito stretti a livello consortile in cui le istituzioni pagano per accedere ai contenuti (per lo più prodotti dai propri ricercatori) e per permettere ai propri ricercatori di pubblicare articoli ad accesso aperto senza costi ulteriori (perché ovviamente i costi per le istituzioni sono aumentati). Nascono originariamente come transitori, perché a costi immutati (falso perché i costi in realtà sono aumentati) dovrebbero condurre ad una trasformazione della editoria scientifica verso un modello aperto, equo e sostenibile.
Sappiamo anche che il movimento dell’accesso aperto si sviluppa come risposta alla crisi del prezzo dei periodici, quando cioè gli editori impongono prezzi così elevati per l’acquisto degli abbonamenti che le istituzioni non sono più in grado di pagarli. Non si mette mai in discussione per cosa stiamo pagando, ma semplicemente il costo elevato. (vale a dire che a fronte di un costo inferiore o definito più equo non ci sarebbero problemi).
Nell’articolo citato si sostiene che gli accordi trasformativi sono un affare soprattutto per gli editori in quanto generano più guadagni da clienti e prodotti già esistenti, facendo in modo che gli autori non si accorgano dei costi e diminuiscono il carico amministrativo per l’editore che nella gestione delle APC diventa molto costoso.
Il sistema delle APC inoltre, in continuo e vergognoso aumento, rischia di danneggiare il rapporto fra autori ed editore, mentre attraverso i contratti trasformativi gli autori non si rendono conto dei costi. Infine, una volta che il contratto è siglato una prima volta, i ricercatori, ritenendolo un affare vantaggioso, tendono a continuare a richiederlo, aspettandosi che le istituzioni lo rinnovino a ogni scadenza.
Gli effetti sul comportamento degli autori sono prevedibili. Uno studio fatto dal consorzio svedese riporta in maniera evidente il cambiamento nelle domande degli autori da “which journal is the best for my article to get published in” a “where could I publish my article without having to pay an APC?”.
In sostanza la direzione che l’editoria scientifica sembra aver preso è verso un open access che manca di qualsiasi valore originario, e che favorisce e anzi consolida quei fenomeni per combattere i quali era nato.
Fra i fenomeni negativi che gli accordi trasformativi contribuiscono a consolidare possiamo citare il rafforzamento del modello ibrido e delle rendite di posizione degli oligopoli della scienza, la mancanza di consapevolezza sui costi effettivi della comunicazione scientifica da parte degli autori, l’indirizzamento verso le sedi editoriali oggetto di questi contratti a scapito di sedi editoriali magari più qualificate ma per le quali non ci sono facilitazioni, l’accentuazione delle disuguaglianze fra istituzioni del Nord e del Sud del mondo.
L’articolo si conclude con alcune considerazioni e una domanda che a questo punto verrebbe naturale porsi:
Will TA carry academic journals into an Open future? It’s unlikely large publishers will change in a direction that’s positive to libraries, or willingly cede some of the benefits they have gained from this business model. TA provide many benefits and interests that don’t align with libraries and are counter to them. This direction leads to a future that is technically OA but lacks any of the values originally associated with the movement. It homogenizes published research by excluding many researchers from access to publishing and enriches the corporations OA emerged to combat. It reduces the diversity of publishers, particularly small non-profit or society publishers. TA could carry us into a future where read access to research is highly accessible, but the research covers fewer perspectives. Wiley has stated that the individuals are unwilling to pay for academic digital text. They have found another method of extracting funds from the academic market. Are libraries willing to invest in this uncertain future?