Un gruppo di riviste cosiddette “eccellenti”, da BMJ a the Lancet, dal New England journal of medicine
L’articolo è scritto da un gruppo di editor che afferiscono al International Committee of Medical Journal Editors e il suo scopo è quello di rappresentare il problema dell’editoria predatoria e di fornire a istituzioni ed autori una serie di strumenti per combatterla.
L’editoria predatoria viene descritta come una editoria che non rispetta gli standard minimi dell’editoria scientifica, fra le cui pratiche c’è senza dubbio quello di un atteggiamento aggressivo nella ricerca di contributi, la promessa di tempi di pubblicazione molto veloci, la mancanza di trasparenza sui processi interni, la citazione di metriche inventate e che assomigliano lontanamente a quelle tradizionalmente in uso (ad es. Cite score invece che CiteScore), la citazione fra i membri dell’editorial board di scienziati che non sanno di farne parte, o di figure fittizie con affiliazioni fittizie, la assenza di processi di validazione (peer review).
Si dice anche che autori particolarmente vulnerabili sono i giovani ricercatori a inizio carriera spesso sottoposti alla pressione del Publish or Perish e che è compito di ricercatori più senior, di istituzioni e finanziatori mettere in guardia i giovani ricercatori, anche suggerendo l’uso di strumenti di analisi dei processi delle riviste come Think Check Submit.
Spiace che da questo pulpito e da tali prestigiose sedi editoriali non emerga una parola sul tema della pressione per pubblicare e del fatto che in molti sistemi della ricerca (non tanto lontani da qui) i ricercatori vengono remunerati sulla base di determinati parametri numerici (qui un elenco piuttosto esaustivo) che favoriscono comportamenti adattativi.
Spiace anche vedere come l’editoria predatoria venga individuata come il problema dell’editoria scientifica in ambito biomedico, e forse giova a questo punto fare un breve elenco di altri problemi che l’editoria di qualità dovrebbe affrontare, quei problemi che disegnano una situazione che Dorothy Bishop in un articolo sul Guardian ha definito appailing: agghiacciante.
Si pensi ad esempio alle retractions che negli ultimi anni hanno raggiunto numeri vertiginosi e mai visti in precedenza. Certamente il fatto che una pubblicazione che ha dati inconsistenti o errori metodologici venga ritirata è un buon segno di salute, ma ci si chiede quale sia stato il processo di validazione. E le retraction non vengono fatte dalle riviste predatorie, ma proprio da quegli editori che si mettono sul piedistallo, come giudici e arbitri di ciò che è di qualità e ciò che invece è predatorio.
Difficilmente le pubblicazioni su riviste predatorie vengono citate, mentre le pubblicazioni su The Lancet, o BMJ o JAMA sono di solito molto citate, anche quelle che poi vengono ritirate. E che dire delle decine di esempi di utilizzo non dichiarato di intelligenza artificiale per testi e figure e di quelle che vengono chiamate “Tortured Phrases“.
Le dimissioni in massa di interi board editoriali non sono quelli di riviste predatorie, ma quelle dei cosiddetti editori di qualità.
Ci sono editori che offrono a caro prezzo la possibilità di pubblicare in maniera veloce (accelerated publications)
Gli editori e le riviste che hanno pubblicato l’articolo sulle riviste predatorie sono quelli che hanno fatto registrare un incremento mai visto dei costi per pubblicare, da un lato attraverso i contratti trasformativi (che non trasformano nulla) e dall’altro attraverso un aumento ingiustificato e incontrollato delle APC (si pensi agli 11.000 dollari per pubblicare su Nature).
Non si vuole dire che le riviste predatorie non siano un problema, lo sono certamente, ma da editori così prestigiosi ci si aspetterebbe che il problema dell’editoria scientifica venisse affrontato in maniera sistemica e non così parziale.