La pressione per pubblicare come causa della irriproducibilità delle ricerche

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Un recente studio pubblicato su PLos Biology

che riporta i risultati di una indagine fatta su oltre 1600 autori che hanno pubblicato in ambito biomedico nel periodo ottobre 2020-ottobre 2021 mette in relazione la pressione per pubblicare, l’ossessione per i ranking, l’enfasi sulla quantità piuttosto che sulla qualità, il valore attribuito al numero di citazioni, con il fatto che molte ricerche risultano oggi non riproducibili. Il tema era già stato messo in rilievo da una indagine del 2016 che sottolineava la difficoltà a riprodurre non solo le ricerche di altri ma anche le proprie in diversi ambiti disciplinari.

Altre cause sono individuate nelle analisi statische inconsistenti, nella selezione mirata di solo alcuni dati (quelli positivi), e nell’uso di campioni troppo limitati.

Nature riporta brevemente i risultati di questo articolo e i commenti di alcune figure che lavorano da anni sul tema della research integrity.

Elizabeth Bik (investigatrice scientifica) e Ivan Oransky (co-fondatore del sito Retraction Watch) che riconoscono che in moltissimi casi la irriproducibilità è frutto di cattiva condotta scientifica, e Marcus Munafò co-fondatore di UK Reproducibility Network, iniziativa presente anche in altri Paesi (ad esempio il nostro) che ha lo scopo di formare i ricercatori nelle pratiche di open science, la condivisione di dati, codice e software, considerati fornamentali per la riproducibilità.

La formazione alla condivisione e alla collaborazione (qualcosa che si è riusciti a fare veramente solo in un periodo di grave emergenza sanitaria) è certamente un punto importante per la riproducibilità, ma fondamentale risulta la azione sistematica e coordinata di tutti gli attori dell’ecosistema della ricerca: finanziatori, istituzioni, ricercatori.